Ci sono vicende che, più di altre, mettono a nudo lo scarto ormai strutturale tra il diritto e il buon senso, tra l'applicazione rigorosa della norma e la percezione diffusa di ingiustizia. La storia della cosiddetta "casa nel bosco", da cui tre bambini sono stati allontanati con un blitz notturno, appartiene senza dubbio a questa categoria. Ed è proprio in questi casi che la politica dovrebbe trovare il coraggio di interrogarsi.
Quel nucleo familiare, come ha ricordato subito il Ministro Salvini, non era la versione contemporanea della fiaba di Hansel e Gretel. I tre bambini non erano maltrattati, abusati, denutriti. Lo dice la stessa Ordinanza del Tribunale dell'Aquila che li ha sottratti alla famiglia. Eppure, scorrendo le motivazioni dei magistrati che ho voluto leggere integralmente si resta colpiti dal ricorso a parametri che, se applicati in modo uniforme, riguarderebbero decine di migliaia di minori in Italia.
La casa non avrebbe "requisiti statici adeguati". Ma viviamo in un Paese in cui milioni di famiglie crescono i propri figli in zone sismiche o a rischio alluvione, senza che le loro abitazioni rispettino gli standard minimi di sicurezza. I bambini, vivendo nei boschi, sarebbero stati privati della socialità. Ma esistono interi quartieri e intere regioni dove la criminalità organizzata arruola i minori come staffette, mascotte, manovalanza. Quanto ai requisiti igienici, basterebbe attraversare certi campi rom o alcune periferie degradate per incontrare situazioni ben peggiori. E non si può dimenticare che in Italia sono "oltre 15 mila i bambini che praticano l'istruzione parentale", spesso in contesti non sempre conformi agli standard ideali di socialità e strutture, senza che questo comporti interventi così drastici da parte dell'autorità giudiziaria.
L'applicazione ferrea della norma, sganciata da un giudizio proporzionato al contesto, finisce così per apparire persino grottesca. Certo: quasi nessuno di noi sceglierebbe un simile stile di vita per i propri figli, consapevole dei limiti e delle opportunità che verrebbero loro sottratte. Ma da qui a giustificare un allontanamento coatto, notturno, con le modalità di un'operazione di polizia, ce ne corre. Che cosa è accaduto, allora? Non credo si tratti dell'ennesimo errore di uno o più magistrati. Il punto ancora una volta è politico. Perché questa legge, come molte altre che oggi producono effetti sproporzionati, l'ha scritta il Parlamento.
Il caso nasce da un episodio banale: una visita in ospedale per sospetta intossicazione alimentare. Nulla di grave. Ma dal referto emergono elementi che attivano gli assistenti sociali e quindi il Tribunale. Da quel momento, come troppo spesso accade, si innesca un meccanismo perverso: ogni funzionario agisce prima di tutto per proteggersi, non per tutelare davvero i tre minori. L'amministrazione che dovrebbe difendere i più fragili finisce per schiacciarli sotto il peso delle proprie paure, generando quella "somma iniuria" che i latini conoscevano bene come effetto del "summum ius".
È il prodotto di una legislazione compulsiva, emozionale, che almeno da vent'anni domina i lavori parlamentari. Ogni volta che un fatto di cronaca scuote l'opinione pubblica, il legislatore risponde con una nuova stretta: un pirata della strada? Si inaspriscono le pene. Un caso di maltrattamenti? Si irrigidiscono le procedure. Un sentimento diffuso di insicurezza? Ecco l'ennesimo pacchetto sicurezza.
Si rincorre il clamore mediatico, invece di applicare meglio le norme già esistenti che nel campo della tutela dei minori, peraltro, sono complesse e stratificate. Così si producono "grida manzoniane" che servono a placare l'emozione del momento, ma che, applicate alla generalità dei casi, generano storture più gravi di quelle che vorrebbero correggere.
La "casa nel bosco" non è, in sé, un errore giudiziario: è il risultato di un sistema normativo sbilanciato. Quando si scrivono leggi sull'onda dell'emozione, il diritto perde equilibrio e razionalità. E la stessa opinione pubblica che oggi insorge per i bambini allontanati è spesso la stessa che, anni fa, pretendeva norme più severe dopo casi inversi, di minori lasciati in famiglie davvero abusanti. Se poi si aggiunge un sistema di responsabilità che paralizza chi dovrebbe decidere che si tratti di un magistrato o di un funzionario per paura di finire sotto indagine, l'ingiustizia diventa inevitabile.
La vera riforma della giustizia, dunque, non si esaurisce nella pur cruciale separazione delle carriere. Passa da una revisione severa, coraggiosa, profonda dell'immensa produzione legislativa "emotiva" accumulata negli anni. Occorre ripulire i codici dagli eccessi, restituire proporzione, mestiere, sobrietà al diritto. Solo così la legge tornerà a essere uno strumento giusto per ogni caso e non una trappola che colpisce a caso.